mercoledì 4 novembre 2009

Il 4 novembre!


Il 4 novembre 1918, novanta anni fa, aveva termine il primo conflitto mondiale. La "Grande Guerra" è un evento che ha segnato profondamente l’inizio del XXº secolo, determinando radicali mutamenti politici e sociali.
La data, che celebra la fine vittoriosa della guerra, commemora la firma dell’armistizio siglato a Villa Giusti (Padova) con l’Impero austro-ungarico. Il 4 novembre, nel tempo, è divenuta la giornata dedicata alle Forze Armate e all’Unità Nazionale. La giornata vuole ricordare in special modo tutti coloro, soprattutto giovanissimi, che sono morti nell’adempimento delle loro funzioni militari.

Anniversario amaro per Obama!



dal "Corsera"

NEW YORK -
E' un anniversario amaro per Barack Obama. Un anno dopo la sua vittoria alle presidenziali, il partito democratico incassa una sonora sconfitta in alcune elezioni locali. E' un mini-test limitato a pochi Stati, ma per i repubblicani è stata festa grande. E' un segnale che alle elezioni di mid-term del 2010 l'opposizione di destra potrà insidiare il controllo democratico sul Congresso. I democratici hanno perso non solo il governatore della Virginia, com'era ampiamente previsto, ma anche quello del New Jersey che invece sembrava in bilico fino all'ultimo. La "magìa" di Obama stavolta non ha funzionato, neppure in uno Stato che è tradizionalmente una roccaforte democratica. "E' l'inizio della nostra rimonta", ha dichiarato il presidente del partito repubblicano Michael Steel, precipitandosi nel New Jersey a partecipare alle celebrazioni del suo candidato.
La delusione più cocente per Obama è venuta proprio lì nel New Jersey, dove il repubblicano Chris Christie ha ottenuto quasi il 50% dei voti. Si è fermato a un modesto 46% il governatore uscente, il democratico Jon Corzine. Sulla débacle del New Jersey hanno pesato certo dei fattori estranei alla popolarità di Obama. Corzine ha pagato il fatto di essere "l'uomo di Wall Street" (fu chief executive della Goldman Sachs) in una fase in cui i banchieri calamitano il risentimento popolare. Inoltre il governatore uscente non ha mantenuto la promessa di ridurre la pressione fiscale.
E la sua immagine è stata associata a una serie di scandali che hanno macchiato la classe dirigente locale, sia pure senza coinvolgerlo direttamente. Ma Obama sperava di poter fare la differenza: fino all'ultimo il presidente si è esposto in prima persona, con tre interventi in campagna elettorale al fianco di Corzine. Tutto inutile. Un pezzo di base democratica ha disertato il voto, nello Stato alle porte di New York che l'anno scorso aveva dato a Obama un margine di vittoria (57%) molto superiore alla media nazionale.
Un copione simile si è visto in Virginia. In questo caso la vittoria repubblicana era annunciata, lo Stato del Sud ha tradizioni conservatrici. Però un anno fa Obama era riuscito a strappare an che la Virginia al suo rivale John McCain, grazie a una forte affluenza alle urne degli afroamericani. Che ieri sono rimasti in gran parte a casa. Lasciando al candidato repubblicano Robert McDonnell il 59% dei voti. E' questo un aspetto cruciale del voto di ieri: la disillusione, la disaffezione e l'assenteismo di quelle fasce di nuovi elettori - giovani e minoranze etniche - che avevano dato un contributo decisivo alla "marea Obama" il 4 novembre 2008.
E' una magra consolazione per la sinistra il fatto che la riconferma di Michael Bloomberg a sindaco di New York sia avvenuta con un margine molto più risicato del previsto, appena il 51% contro lo sfidante democratico William Thompson. Così come non fanno notizia le scontate vittorie dei sindaci democratici di Boston e Detroit.
Nonostante la scesa in campo di Obama nel New Jersey, gli uomini del presidente negli ultimi giorni avevano cercato di negare la portata nazionale del voto e quindi di minimizzare in anticipo l'impatto di una sconfitta. "Sono voti amministrativi decisi dalle questioni locali" aveva detto il sondaggista del presidente Joel Benenson. Ma oltre ai problemi locali nelle campagne elettorali ha avuto un peso notevole la crisi economica. A conferma che ormai l'elettorato non è più disposto a fare sconti ai democratici in nome dell'eredità dell'Amministrazione Bush.
L'alta disoccupazione, così come la guerra in Afghanistan, "appartengono" ormai al presidente attuale. I rischi di un'opposizione repubblicana sempre più dura, e capace di fare breccia anche tra i democratici moderati, sono apparsi chiaramente proprio ieri. Pochi minuti prima che si chiudessero le urne nel New Jersey, il leader democratico al Senato Harry Reid aveva dovuto ammettere che con ogni probabilità mancheranno i 60 voti necessari per fare passare la riforma sanitaria. Il cantiere sociale prioritario per Obama può slittare al 2010, secondo Reid. E tra un anno ai repubblicani basterà conquistare qualche seggio senatoriale in più alle elezioni di mid-term, per avere i numeri necessari all'ostruzionismo sistematico. Contro l'agenda riformista di Obama la guerra della destra a quel punto potrebbe diventare paralizzante.
La radicalizzazione della destra però può anche giocarle un brutto scherzo da qui al 2010. Lo dimostra l'unica elezione di ieri che ha aperto un barlume di speranza per i democratici. Si tratta del rinnovo del 23esimo collegio parlamentare di New York. Una zona teoricamente sicura per i repubblicani. Che però si sono cannibalizzati, proprio per effetto della rincorsa estremista. La loro candidata fino alla settimana scorsa era Dede Scozzafava. Troppo moderata, con posizioni liberal su aborto e matrimoni gay, è stata il bersaglio di una feroce campagna dell'ala destra del suo partito, guidata da Sarah Palin e dagli anchormen Glenn Beck e Rush Limbaugh. La Scozzafava ha finito per ritirarsi ma ha dato indicazione di voto per il candidato democratico, Bill Owens. Mentre i repubblicani si sono riversati su un ultrà conservatore, Douglas Hoffman. La vittoria finale è andata a Owens.

martedì 3 novembre 2009

Salviamo l'acqua pubblica.



www.acquabenecomune.org

La privacy.

I predatori della privacy perduta (da Il Manifesto)


Esiste in Italia un'autorità indipendente che si chiama Garante della privacy, che negli ultimi quindici anni, soprattutto ma non solo nella persona di Stefano Rodotà che ne è stato presidente, ha lanciato sacrosante grida d'allarme sui sistemi di controllo satellitare che ci spiano ovunque, sulle tecniche di profiling che servono a discriminare i lavoratori magari in base alle condizioni di salute, sull'abuso dei nostri dati sensibili negli aeroporti con la scusa di difenderci dai terroristi, sull'abuso di telecamere per strada con la scusa di difenderci dai rapinatori eccetera eccetera.
Eppure a mia memoria nessuna di queste sacrosante grida d'allarme ha mobilitato in Italia uno schieramento a difesa della privacy perduta pari a quello che oggi si stringe a difesa della vita privata degli uomini politici, da Berlusconi a Marrazzo e facendo - indebitamente - d'ogni erba un fascio. Al contrario, il ritornello imperante nelle democrazie occidentali, soprattutto dopo l'11 settembre 2001, è stato che di fronte ai rischi della sicurezza la privacy poteva e doveva andare a farsi benedire, e i princìpi liberaldemocratici pure.
Domanda, spero lecita: come mai oggi la privacy ridiventa sacra, e i principi liberaldemocratici pure? Come mai, oggi in Italia, c'è chi si sente minacciato più dal telefonino dell'amante di una notte che dalla telecamera di una banca, più dal gossip che da Echelon? Perché con i nuovi mezzi di registrazione e duplicazione del reale lo spionaggio si democratizza, scrive sul Corsera Pierluigi Battista rimpiangendo «la vecchia Inquisizione» a fronte della «inedita e spietata dittatura tecno-pettegola» di oggi, come se stesse qui e solo qui il rischio di passare il confine fra democrazia e totalitarismo (e sei televisioni in mano a un premier? e i plebisciti contro la divisione dei poteri?). Marco D'Eramo invece, su queste stesse pagine (29/10), va al sodo, invocando il ripristino di quel caposaldo della modernità che era la barriera fra pubblico e privato, nonché della conseguente e tollerante distinzione fra vizi privati e pubbliche virtù, il tutto nientemeno che a difesa dell'autonomia del politico secondo Dumont, nonché di una opposizione «politica» a Berlusconi contro un antiberlusconismo impolitico e gossiparo. Siamo a questo dunque, all'invocazione della doppia morale - cattolica, anzi democristiana - a presidio di una politica in stato terminale, e dell'ipocrisia dei politici che predicano famiglia e praticano prostituzione? Prendo atto.
Con buona pace di Dumont, le categorie della modernità politica arrivano alla nostra tarda modernità largamente usurate non dalle chiacchiere ma dai fatti. Tra i quali fatti non ci sono solo i telefonini che filmano e i giornali che pubblicano, né soltanto la personalizzazione della politica che presta il fianco alla personalizzazione del linciaggio mediatico (Rina Gagliardi sul Riformista). C'è, ad esempio, che la barriera fra pubblico e privato poteva reggere finché c'era una barriera fra uomini attori della vita pubblica e donne custodi - mute - del focolare privato: si chiamava patriarcato. Saltata la seconda barriera, salta anche la prima: oggi le donne - mogli, amanti e prostitute che siano, angeli o streghe - parlano, e parlano in pubblico. La massima «vizi privati, pubbliche virtù», coniata a tutela degli uomini pubblici, ha perso la garanzia del silenzio femminile. Dire questo non significa, vorrei rassicurare D'Eramo, fare ideologia 'antimaschilista': significa stare ai fatti, e non perdere la bussola. Una bussola che aiuta, per esempio, a distinguere fra il caso Berlusconi e il caso Marrazzo: l'uno denudato dalla denuncia - politica - del suo sistema di potere da parte di sua moglie (e poi di altre testimoni), l'altro da un agguato - antipolitico - di quattro carabinieri nella casa - privata - di una trans. Differenze troppo sottili e troppo scomode per chi (l'apparato mediatico della destra e quello terzista al gran completo) preferisce cavarsela con la graduatoria del disdoro fra escort e trans.
C'è però un'altra bussola che non andrebbe persa, e che passa, ha ragione Mariuccia Ciotta (29/10) , per la piegatura del senso di parole come libertà, desiderio, piacere. Da mesi sento circolare pelosissime preoccupazioni (su l'Altro-gli Altri, in sintonia col Foglio) che sorvegliare sul rapporto fra sesso e potere significhi lavorare per il re di Prussia, ovvero per il moralismo dei bacchettoni e della Cei, tradendo il mandato libertario che ci viene dal Sessantotto, dal femminismo e dalla stagione che legò sessualità e politica. Senonché le parole hanno un senso, e la storia anche. Il sexgate di Berlusconi (e quello di Marrazzo) non è il compimento del '68, come sostiene un «giovane Pd» intervistato giorni fa su Repubblica: ne è casomai il rovesciamento. La libertà sessuale non equivale al mercato del sesso, la creatività del desiderio non equivale alla commercializzazione del piacere. Nel '68 e seguenti a nessuno e a nessuna sarebbe venuto in mente di farsi scudo della massima «vizi privati pubbliche virtù»: i vizi si trattava di portarli e rivendicarli allegramente alla luce del sole, correndo i rischi relativi. Infatti si può guadagnare libertà a spese della privacy. Come si può difendere la privacy a spese della libertà.

domenica 1 novembre 2009

L’influenza A tra bufale (d’oro) e allarmismo di Stato


“Questa storia dell’influenza A è una bufala pazzesca”. Lucia Lopalco è a capo dell’unità di Immunobiologia di Hiv del San Raffaele e insieme al suo staff, pochi mesi fa, si è aggiudicata un premio di 100 mila dollari assegnato dalla fondazione statunitense Bill and Melinda Gates Foundation.

Una bufala che riempie tutte le prime pagine di oggi, però...
Infatti, se non fossi tanto disgustata dall’assenza di professionalità che viene fuori da questa vicenda (identica all’altra di qualche anno fa, nota come influenza aviaria), ci sarebbe solo da ridere. L'unica cosa vera è che il virus H1N1 è particolarmente virulento per tutte le persone gravemente immunocompromesse. Ma si tratta di una normale influenza che una persona in salute (cioè non affetta da gravi patologie) cura con una settimana di riposo nel letto di casa propria: lo scorso anno sono morte 30 mila persone a causa dell’influenza stagionale.

Il vaccino, dunque, che senso avrebbe?
Il vaccino deve essere assunto solo da chi è affetto già da gravi patologie: un paziente sieropositivo, dunque immunodepresso, piuttosto che rischiare la vita e contrarre il virus, ha senso che faccia fronte a possibili effetti collaterali del vaccino stesso. Per le persone sane, invece, è dannoso: non ci sono controlli, in compenso, è in corso un rumorosissimo battage pubblicitario.

Pandemia sì, ma di guadagni per le case farmaceutiche?
Il farmaco è stato sviluppato da Novartis (multinazionale farmaceutica svizzera, ndr) che ha concluso con il governo un contratto capestro che la Corte dei Conti ha giudicato non valido. Il punto è che sulla base di questo contratto, se intervengono effetti collaterali dopo l’inoculazione del siero, non ne risponde la casa farmaceutica (come dovrebbe) ma lo Stato. Cosa vuol dire?

Ce lo dica lei.
Che ha pochissime sperimentazioni e, infatti, moltissimi medici (che sono i principali untori) si rifiutano di farlo.

Si può parlare di una concentrazione di casi a Napoli, come già si sta facendo (più della metà delle 17 vittime è campana ndr)?
Solo se le vittime fossero 100 e i casi riscontrati in Campania fossero 80, potremmo fare una valutazione e spingerci in un’analisi che avrebbe un senso. La domanda è: a Napoli, quanti casi di morte per l’influenza stagionale abbiamo avuto negli ultimi 10 anni? Se fossero superiori alla media nazionale, poi, dovremmo ragionare di malasanità. Ma quella è un’altra storia.

Cosa deve fare una persona sana che contrae il virus A?
Niente allarmismi: basterà una dose doppia di tachipirina e antibiotici.