martedì 3 novembre 2009

La privacy.

I predatori della privacy perduta (da Il Manifesto)


Esiste in Italia un'autorità indipendente che si chiama Garante della privacy, che negli ultimi quindici anni, soprattutto ma non solo nella persona di Stefano Rodotà che ne è stato presidente, ha lanciato sacrosante grida d'allarme sui sistemi di controllo satellitare che ci spiano ovunque, sulle tecniche di profiling che servono a discriminare i lavoratori magari in base alle condizioni di salute, sull'abuso dei nostri dati sensibili negli aeroporti con la scusa di difenderci dai terroristi, sull'abuso di telecamere per strada con la scusa di difenderci dai rapinatori eccetera eccetera.
Eppure a mia memoria nessuna di queste sacrosante grida d'allarme ha mobilitato in Italia uno schieramento a difesa della privacy perduta pari a quello che oggi si stringe a difesa della vita privata degli uomini politici, da Berlusconi a Marrazzo e facendo - indebitamente - d'ogni erba un fascio. Al contrario, il ritornello imperante nelle democrazie occidentali, soprattutto dopo l'11 settembre 2001, è stato che di fronte ai rischi della sicurezza la privacy poteva e doveva andare a farsi benedire, e i princìpi liberaldemocratici pure.
Domanda, spero lecita: come mai oggi la privacy ridiventa sacra, e i principi liberaldemocratici pure? Come mai, oggi in Italia, c'è chi si sente minacciato più dal telefonino dell'amante di una notte che dalla telecamera di una banca, più dal gossip che da Echelon? Perché con i nuovi mezzi di registrazione e duplicazione del reale lo spionaggio si democratizza, scrive sul Corsera Pierluigi Battista rimpiangendo «la vecchia Inquisizione» a fronte della «inedita e spietata dittatura tecno-pettegola» di oggi, come se stesse qui e solo qui il rischio di passare il confine fra democrazia e totalitarismo (e sei televisioni in mano a un premier? e i plebisciti contro la divisione dei poteri?). Marco D'Eramo invece, su queste stesse pagine (29/10), va al sodo, invocando il ripristino di quel caposaldo della modernità che era la barriera fra pubblico e privato, nonché della conseguente e tollerante distinzione fra vizi privati e pubbliche virtù, il tutto nientemeno che a difesa dell'autonomia del politico secondo Dumont, nonché di una opposizione «politica» a Berlusconi contro un antiberlusconismo impolitico e gossiparo. Siamo a questo dunque, all'invocazione della doppia morale - cattolica, anzi democristiana - a presidio di una politica in stato terminale, e dell'ipocrisia dei politici che predicano famiglia e praticano prostituzione? Prendo atto.
Con buona pace di Dumont, le categorie della modernità politica arrivano alla nostra tarda modernità largamente usurate non dalle chiacchiere ma dai fatti. Tra i quali fatti non ci sono solo i telefonini che filmano e i giornali che pubblicano, né soltanto la personalizzazione della politica che presta il fianco alla personalizzazione del linciaggio mediatico (Rina Gagliardi sul Riformista). C'è, ad esempio, che la barriera fra pubblico e privato poteva reggere finché c'era una barriera fra uomini attori della vita pubblica e donne custodi - mute - del focolare privato: si chiamava patriarcato. Saltata la seconda barriera, salta anche la prima: oggi le donne - mogli, amanti e prostitute che siano, angeli o streghe - parlano, e parlano in pubblico. La massima «vizi privati, pubbliche virtù», coniata a tutela degli uomini pubblici, ha perso la garanzia del silenzio femminile. Dire questo non significa, vorrei rassicurare D'Eramo, fare ideologia 'antimaschilista': significa stare ai fatti, e non perdere la bussola. Una bussola che aiuta, per esempio, a distinguere fra il caso Berlusconi e il caso Marrazzo: l'uno denudato dalla denuncia - politica - del suo sistema di potere da parte di sua moglie (e poi di altre testimoni), l'altro da un agguato - antipolitico - di quattro carabinieri nella casa - privata - di una trans. Differenze troppo sottili e troppo scomode per chi (l'apparato mediatico della destra e quello terzista al gran completo) preferisce cavarsela con la graduatoria del disdoro fra escort e trans.
C'è però un'altra bussola che non andrebbe persa, e che passa, ha ragione Mariuccia Ciotta (29/10) , per la piegatura del senso di parole come libertà, desiderio, piacere. Da mesi sento circolare pelosissime preoccupazioni (su l'Altro-gli Altri, in sintonia col Foglio) che sorvegliare sul rapporto fra sesso e potere significhi lavorare per il re di Prussia, ovvero per il moralismo dei bacchettoni e della Cei, tradendo il mandato libertario che ci viene dal Sessantotto, dal femminismo e dalla stagione che legò sessualità e politica. Senonché le parole hanno un senso, e la storia anche. Il sexgate di Berlusconi (e quello di Marrazzo) non è il compimento del '68, come sostiene un «giovane Pd» intervistato giorni fa su Repubblica: ne è casomai il rovesciamento. La libertà sessuale non equivale al mercato del sesso, la creatività del desiderio non equivale alla commercializzazione del piacere. Nel '68 e seguenti a nessuno e a nessuna sarebbe venuto in mente di farsi scudo della massima «vizi privati pubbliche virtù»: i vizi si trattava di portarli e rivendicarli allegramente alla luce del sole, correndo i rischi relativi. Infatti si può guadagnare libertà a spese della privacy. Come si può difendere la privacy a spese della libertà.