L’unico elemento di certezza che vige in materia di quiescenza è sicuramente “l’incertezza” che i dipendenti della pubblica amministrazione avvertono ormai da diversi anni, oserei dire con giustificato timore, per il proprio futuro pensionistico a cui si è aggiunta la preoccupazione per le recenti modifiche legislative che hanno introdotto nuove norme nell’istituto dell’esonero, del trattenimento in servizio e della risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro. L’asserzione trova riscontro e manifesto nell’art. 72 del decreto legge n. 112 del 2008, modificato e convertito in legge n. 133 del 2009, e nelle consequenziali emanazioni, a cura del Dipartimento della Funzione Pubblica, delle circolari applicative n. 10 del 2008 e n. 4 del 2009, alle quali ogni singola amministrazione si sta adoperando con solerzia per la loro puntuale attuazione. E’ innegabile che i tre istituti si possono configurare come degli idonei strumenti, in dotazione a ciascuno apparato statale, per conseguire i criteri di razionalizzazione delle risorse umane e di riorganizzazione della struttura attraverso cui operano al fine di ricondurre il tutto entro parametri di efficienza e efficacia dell’azione amministrativa, ma è pur vero che, nonostante percorrono strade apparentemente diverse, questi convergono verso una unica direzione: sfoltire le fila dei pubblici dipendenti. Il palese intento del ministro Brunetta è la “rottamazione” del personale, infatti impone alle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs n. 165 del 2001 di addivenire ad un esodo del personale verso il pensionamento, specialmente là dove si è in presenza di dipendenti in esubero rispetto alla effettiva esigenza organica oppure in enti soggetti a ristrutturazione o in chiusura e che non si prevede il loro utile reimpiego. Restano salvi quei dipendenti che risultano indispensabili al servizio per la loro specifica competenza e professionalità, senza i quali l’intera struttura ne subirebbe delle conseguenze nefaste. La portata della norma, pur se limitata al triennio 2009/2010, è profondamente innovativa in materia di collocamento a riposo e compie un decisivo passo in aventi nel cammino verso un rapporto di lavoro sempre più di natura privatistico ma se gli obbiettivi di razionalizzazione, di efficienza, di efficienza e di economicità della pubblica amministrazione sono ampiamente condivisibili un po’ meno lo sono i sono i mezzi attraverso i quali si vuole raggiungere l’uniformità. Invero tali obiettivi, presi in prestito dal settore privatistico, non sempre si addicono al settore pubblico in quanto mal si conciliano con le finalità della res publica e là dove si conciliano si scontrano con la mentalità del pubblico dipendente che risulta ancora intrisa di abitudini e concezioni errate nel proprio modus operandi. La classe dirigente quindi dovrebbe investire maggiormente nel cambio di mentalità tesa verso criteri privatistici. Certamente non è il collocamento a riposo di qualche dipendente o l’esonero dal servizio che porteranno al conseguimento dei citati obbiettivi, se non altro ad una falsa economia di spesa nella retribuzioni del personale in attività. Vediamo partitamente i tre istituti. Di tenore più blando rispetto agli altri due è l’istituto dell’esonero, sancito dall’art. 72 – commi dal 1° al 6° – della legge n. 133/2008, che prevede, per coloro che nel triennio 2009/2011 abbiano maturato il requisito minimo di anzianità contributiva (35 anni di contribuzione indipendentemente dall’età anagrafica), la possibilità di presentare una richiesta (irrevocabile), entro il 1° marzo di ciascun anno, di astensione dal prestare la propria attività nel corso del quinquennio antecedente alla maturazione dei 40 anni di contribuzione. Nell’ambito del periodo di esonero il dipendente viene collocato in una posizione eterea, in quanto, pur non prestando alcuna attività lavorativa per conto dell’amministrazione di appartenenza, percepirà ugualmente il 50% delle voci stipendiali nella loro totalità incluse quelle accessorie goduti all’atto dell’astensione e, inoltre, in caso di collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, il periodo di astensione verrà computato per intero sia ai fini di quiescenza sia ai fini previdenziali come se il dipendente fosse stato effettivamente in servizio durante l’intero periodo di esonero. La percentuale di stipendio goduto verrà incrementata dal 50% al 70% qualora “l’ex dipendente” decidesse di cooperare, in modo continuativo ed esclusivo, con associazioni di volontariato, onlus, associazioni di promozione sociale, organizzazioni non governative e altri soggetti che dovranno essere individuati dal Ministro dell’Economia e delle Finanze. Ma ciò che stimolerà maggiormente coloro che ricadono in questa fattispecie e sicuramente l’opportunità di cumulare il reddito percepito nel corso dell’esonero con il reddito maturato per attività lavorativa autonoma, di collaborazione o di consulenze con soggetti diversi dalle pubbliche amministrazioni. Certamente vige pur sempre il divieto, orami consolidato dalla passata legislazione, di svolgere durante l’astensione qualsiasi attività lavorativa dipendente con soggetti pubblici o privati e la preclusione di esercitare qualunque attività che possa recare pregiudizio all’amministrazione di appartenenza. Tale diniego trova la sua ragion d’essere nel prevenire la possibilità che il dipendente, collocato in posizione di esonero, possa assumere incarichi di qualsivoglia natura (collaborazione, consulenza ecc…) con la stessa amministrazione di provenienza o con altre pubbliche amministrazioni, conseguendo in tal modo un aggravio di oneri ed evitare la paventata possibilità di collusione. L’istituto dell’esonero, in definitiva, sembra per alcuni versi soddisfare entrambe le parti ma l’ago della bilancia si sposta verso l’amministrazione allorquando al comma 6 il legislatore ha previsto il “turn over” del personale, per meglio dire la “rottamazione”, in quanto consente a quest’ultima la possibilità di assumere nuovi dipendenti in via anticipata rispetto a tempi previsti dalla normativa in vigore. IL comma 7 dell’art. 72 della legge n. 133/2008 introduce nuove disposizioni normative che modificano sostanzialmente il regime del trattenimento in servizio per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età. La facoltà del dipendente di presentare una istanza di permanenza in servizio per un biennio oltre i limiti di età, che variano a secondo ciascun ordinamento per il collocamento a riposo per vecchiaia (in genere 65 anni), invero non subisce alcuna alterazione essendo stata prevista dal legislatore anche nella nuova norma ma questa facoltà si scontra con un'altra facoltà: quella dell’amministrazione di accogliere o meno l’istanza di permanenza. Il testo originario dell’istituto del trattenimento in servizio (art 16, comma 1, del d.lgs. n. 503/92) sanciva che alla facoltà del dipendente di presentare una istanza di permanenza ne scaturiva un diritto al quale l’amministrazione non poteva che consacrarlo con l’emissione di un provvedimento autorizzativo. La nuova versione normativa lascia alcuni dubbi, se non anche interdetti, allorquando si riscontra nel medesimo testo di legge una doppia facoltà in capo a due soggetti diversi e contrapposti, dove il diritto del dipendente sembra sottacere innanzi ad un potere decisorio dell’amministrazione basato su elementi ora di natura oggettiva ora di natura soggettiva, attribuendo così a questa ampi spazi di discrezionalità nell’esercizio del suo potere concessorio. Le istanze verranno valutate, pertanto, sulla base delle esigenze organizzative e funzionali dell’amministrazione e in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dall’istante in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell’andamento dei servizi. Sicuramente ciascuna amministrazione si adopererà ben presto per fissare dei criteri oggettivi con cui riempiere di contenuti i concetti di organizzazione e di funzionalità che contraddistinguono l’azione di ogni singola amministrazione, al fine di non incorrere in contenziosi per comportamenti incoerenti. Da evidenziare che la norma al comma 8 dispone che sono fatti salvi tutti provvedimenti di trattenimento in servizio in essere alla data di entrata in vigore del d.lsg., al comma 9 dispone la rivisitazione degli atti autorizzativi aventi decorrenza dal 1 gennaio al 31 dicembre 2009 a seguito di istanze presentate nel 2008 e al comma 10 gli atti autorizzativi di trattenimento in servizio concessi dal 01 gennaio 2010 decadono e i dipendenti dovranno presentare una nuova istanza. E’ proprio dalla lettura del combinato disposto dei commi 8,9 e 10 con il comma 7 che si rinviene l’effettiva portata della norma la quale impone la rivisitazione degli atti amministrativi autorizzativi dell’esercizio di un diritto del dipendente, per rivalutarli sulla base delle esigenze organizzative e funzionali, consentendo anche il loro ritiro ed eludendo, in tal modo, le legittime aspettative degli impiegati. Qualche dubbio sorge in merito alla necessità di dover riprendere dei provvedimenti già definiti, forse sarebbe stato più opportuno ratificarli e far decorrere gli effetti della norma fissando una data ipotetica, non inferiore ai limiti di presentazione dell’istanza (comma 7). Vanno in ogni caso rispettati i limiti minimi contributivi per il conseguimento della pensione, quindi nel caso in cui un dipendente dovesse maturare i requisiti minimi di contribuzione (35 anni di contribuzione) nel corso del biennio successivo all’età pensionabile, l’amministrazione gli deve garantire la permanenza in servizio accompagnandolo fino al raggiungimento della loro maturazione e al conseguimento della pensione (sentenza Corte Costituzionale n. 282/91). IL comma 11 introduce sostanziali modifiche normative in materia di risoluzione del rapporto del lavoro per chi raggiunge i limiti di anzianità contributiva di quarant’anni. Il sistema quiescenziale prevede che il computo pensionistico viene determinato per un massimo di 40 anni di contribuzione (anzianità di servizio) e i periodi superiori non vengono considerati ma il maturare di tale requisito non comportava l’esodo dal servizio. Il dipendete, infatti, che avesse maturato i 40 anni di contribuzione ma non anche il requisito dell’età anagrafica gli era consentita la permanenza in servizio. Con la nuova disposizione del comma 11 assistiamo, invece ad un’altra sostanziale novità legislativa cioè: il dipendente che compie i 40 anni di effettiva contribuzione (nella prima stesura della norma si computava solo l’effettivo servizio con esclusione di riscatti, ricongiunzione ecc..) potrebbe, sulla base delle sopra accennate giustificate motivazione, ritrovarsi notificato un provvedimento di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro e collocato a riposo in funzione delle finestre previste per l’anzianità di servizio con un preavviso di almeno sei mesi. Il legislatore, a differenza di quanto previsto per l’istituto di cui al comma 8, non ha sancito un periodo di transizione nell’applicazione della norma rendendola immediatamente applicabile, ne consegue che le amministrazioni possono risolvere il contratto di lavoro nei confronti di quei soggetti che hanno già maturato o che si accingono a maturare la prescritta l’anzianità contributiva. Il dipendente, che non si rassegni dal ritrovarsi repentinamente fuori dal mondo del lavoro, può chiedere all’amministrazione la permanenza in servizio, la quale dovrà ben giustificare il provvedimento che adotterà sia se trattasi di risoluzione del rapporto del lavoro sulla base degli stessi criteri citati per trattenimento in servizio (esigenza di riorganizzare la propria struttura in relazione innovazioni, ammodernamenti, rideterminazione dei fabbisogni del personale, l’esubero, la riorganizzazione o razionalizzazione dei servizi ecc…) sia se trattasi di permanenza (particolare esperienza, professionalità ecc…) al fine di non incorrere in comportamenti incoerenti o contraddittori che potranno creare contenzioso con il personale. Invero, anche se uno svecchiamento era auspicabile da diverso tempo, tenuto conto della età media del pubblico dipendente e della necessità di dover dar spazio a nuove leve, è anche vero che bisogna tener conto di altri risvolti quali: psicologico e sociale. La norma è stata introdotta nel sistema pensionistico senza una adeguata pubblicità e senza alcuna preparazione culturale creando non poco scompiglio specialmente tra quei dipendenti che si troveranno frustati nelle loro aspettative di: progressione in carriera (di imminente attivazione presso le varie amministrazione), di eventuali aumenti stipendiali contrattuali e di trattamento di buona uscita. Sarà sicuramente anche causa di turbamenti psicologici per il ritrovarsi in una società che non ha strutture idonee per accoglierli e dove poter coltivare i propri interessi, attenuando così il contraccolpo che gran parte dei pensionati subiscono quando escono dal mondo del lavoro. Un altro aspetto sociale che bisogna considerare è l’aggravio della cassa dell’Inpdap per la corresponsione di pensioni non programmate che, ovviamente, ricadranno ancora una volta sulla parte attiva della società. Se il ministro Brunetta vorrà estendere la normativa nel futuro, in contrapposizione con quanto proclamato sino a poco tempo fa: cioè incrementare l’età pensionabile in relazione all’accresciuta speranza di vita, dovrà sicuramente individuare delle nuove fonti di finanziamenti che non incidano sulle già esigue pensioni. Ai posteri l’ardua sentenza. tratto da STUDIOCATALDI