Nella riforma della Pubblica Ammnistrazione è stata
recentemente inserita una norma che consentirebbe ai sindaci di nominare
nei propri staff, con stipendi da laureati, anche persone non laureate.
Non comprendo quali argomentazioni tecniche o giuridiche o di opportunità sorreggano una simile disposizione.
La Costituzione, e leggi che reggono la PA, fanno sì che
essa non è paragonabile ad un’azienda privata: qui il proprietario si
organizza come meglio crede, e ritiene, libero di assegnare incarichi di
vertice a chiunque per perseguire gli obiettivi aziendali.
La Costituzione (art.97), e le norme che regolano l’accesso
agli impieghi pubblici, determinano , invece, discipline ferree e che
si muovono in senso diametralmente opposto al sistema privato: per
svolgere determinati incarichi, funzionario o dirigente, occorre la
laurea come requisito obbligatorio.
Perchè mai proprio la laurea?
Per un motivo semplice: essendo la PA patrimonio della
collettività, e al suo servizio, la selezione, per le attività da
svolgere, va fatta per i migliori candidati possibili sia per requisiti
professionali che per concorso.
Non vorrei che la riforma della PA, incensata da molti con
un inno alla modernità e all’efficienza, venga trasformata nell'ennesima
occasione per ottenere posti ben remunerati e di potere come “premio”
per la fedeltà partitica o al leadership del momento, prescindendo da
investimenti nella formazione, puntando tutto su un feudale atto di
vassallaggio.